Uno dei problemi strutturali del miglioramento genetico vegetale è sempre stato il trasferimento dell’innovazione all’operatore agricolo. Nel caso del frumento, questo passaggio si è storicamente rivelato particolarmente complesso. Lo racconta a Grano Italiano il Prof. Tommaso Maggiore, Professore Ordinario di Agronomia Generale e Coltivazioni Erbacee (in quiescenza) e Accademico ordinario dei Georgofili, Firenze (nella foto). «Uno dei problemi più grandi» ci dice «è storicamente stato quello di trasferire l’innovazione dalla Ricerca all’agricoltore sul territorio». Il problema non era, quindi, solo quello di creare nuove varietà, ma di costruire i meccanismi che permettessero loro di arrivare in modo affidabile e controllato nei campi, con vantaggi di produttività e qualità.
Trasferimento per prossimità
Fino alla fine dell’Ottocento il sistema del trasferimento dell’innovazione in agricoltura funzionava per prossimità. Quando un agricoltore notava un materiale vegetale leggermente migliore dal vicino, cercava di procurarselo. Si trattava, quindi, di un trasferimento locale, lento, basato sull’osservazione diretta. Per questo «un materiale ritenuto superiore aveva bisogno di qualche decina di anni per occupare un territorio» ci dice Maggiore. Nel frumento e nei cereali in genere, più che in altre colture, le varietà restavano ancorate a specifici areali per lunghissimo tempo.
Le vecchie varietà italiane di frumento duro, ad esempio, occupavano territori ben definiti e non si spostavano da questi areali. In Sicilia, per citarne alcune, le varietà Timilie e Russello occupavano ciascuna la propria zona. «Nella sostanza, non si muoveva niente» e chi provava a innovare incontrava enormi difficoltà a diffondere i materiali. Quello cerealicolo, quindi, restava un mondo statico, chiuso, poco permeabile alle novità.
I “sementaroli “nelle orticole
Diversa era la situazione nel comparto orticolo. Qui, oltre allo scambio locale, nei mercati era presente la figura del cosiddetto “sementarolo”, in grado di portare semente acquistata altrove o fatta riprodurre in proprio . Fino agli anni ’70 del Novecento, in alcune zone italiane si contavano migliaia di ettari dedicati alla produzione di seme orticolo, anche per l’estero. Nel Piacentino i sementaroli della Val d’Arda, o in Veneto i tombolani ossia quelli del comune di Tombolo, per citare alcuni tra i più importanti, gruppi di produttori si erano specializzati nel riprodurre sementi (per l’Italia e per l’estero) e nel portarle sui mercati. Alcuni avevano anche la possibilità di andare all’estero per recuperare materiale nuovo.
Il passaggio verso un mercato strutturato

All’inizio del Novecento, poi, comparvero anche operatori particolarmente innovativi che contribuirono a trasformare la semente in un prodotto commerciale moderno. Non solo raccoglievano variabilità genetica, ma la rendevano disponibile su catalogo.
Nacquero, quindi, realtà come quella degli Ingegnoli a Milano o di Sgaravatti a Padova o i venditori di sementi orticole dell’Agro Nocerino Sarnese che servivano il mercato nazionale inviando cataloghi direttamente a casa degli agricoltori. «Si sceglieva sul catalogo e, in base alle quantità richieste, gli venivano spedite singole bustine o sacchi di diverse dimensioni» ci dice Maggiore. Si tratta del primo vero passaggio verso un mercato sementiero strutturato.
Immagini gentilmente concesse dal Prof. Tommaso Maggiore
Autore: Azzurra Giorgio
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