Le prove varietali di adattamento e resa sono o dovrebbero essere alla base delle scelte che gli agricoltori compiono nella programmazione e organizzazione strategica delle aziende agricole. Le origini delle reti di prova affondano le radici nel lavoro portato avanti da ricercatori e tecnici negli ultimi decenni del Novecento. Tra questi, fu protagonista il Prof. Tommaso Maggiore, Professore Ordinario di Agronomia Generale e Coltivazioni Erbacee (in quiescenza) e Accademico ordinario dei Georgofili, Firenze (nella foto), che in una intervista a Grano Italiano racconta le difficoltà e i successi del percorso che ha portato le prove varietali hanno avuto in Italia.
All’inizio mancavano gli strumenti
Per decenni, ci racconta, le prove di adattamento e resa nel frumento erano particolarmente complesse da realizzare, per carenza di strumenti, macchine e risorse. In pratica non si facevano, i Consorzi o le ditte sementiere diffondevano le novità in molte località e poi sceglievano “ a occhio” quelle che sembravano le più adatte da diffondere. Costitutori come Cirillo Maliani non cedevano alle prove! «Realizzare un campo sperimentale significava dover reperire e gestire molta manodopera» ci dice. Nel frumento, ad esempio, le semine avvenivano completamente a mano, con il “bicchierino”, fila per fila, e la raccolta con il falcetto per arrivare alla granella con piccole trebbiatrici In queste condizioni, la possibilità di confrontare in modo scientifico le varietà era fortemente limitata
Negli anni Sessanta e Settanta, molte prove su frumento duro al Nord erano pensate più per mostrare che per misurare. I campi venivano replicati nello stesso modo, con scarsa attenzione alla variabilità del terreno nell’ambiente prova. Tuttavia, anche queste esperienze iniziavano a produrre dati orientativi utili, soprattutto quando si cominciò a confrontare ambienti diversi come repliche.
La svolta della meccanizzazione

La vera svolta arrivò con la meccanizzazione della sperimentazione, in cui Maggiore ed altri colleghi ebbero un ruolo determinante grazie all’osservazione delle esperienze estere e all’ingegno di ricercatori e artigiani italiani. Si realizzarono, infatti, le prime seminatrici parcellari, costruite artigianalmente. «Con questa seminatrice» ci racconta Maggiore «si risolvevano in velocità le semine: 500-600 parcelle da 10 m2 in un giorno erano fattibili». Si pensi che prima a Sant’Angelo Lodigiano, le semine parcellari su una superficie di circa 5-6 ettari, prima della meccanizzazione, avevano inizio alla fine di settembre e si chiudevano alla Vigilia di Natale, con l’impiego di un gruppo di circa 20 donne. L’organizzazione meccanizzata e razionale del lavoro, quindi, permise di ampliare il numero di varietà da testate e le località da coinvolgere, rendendo robusto il confronto tra i materiali in prova.
Parallelamente, si è evoluto il disegno sperimentale. Inizialmente si utilizzava lo stesso schema ovunque ma, presto, emerse la necessità di realizzare schemi specifici per zona, così da controllare al meglio la variabilità di campo. Cambiò anche la dimensione delle parcelle, si ridussero gli effetti di bordo e andò migliorando l’affidabilità dei dati.
Immagini gentilmente concesse dal Prof. Tommaso Maggiore
Autore: Azzurra Giorgio
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