In Basilicata cresce il numero di agricoltori che rinunciano a seminare grano duro. Nelle aree interne e collinari, dove le rese raramente superano i 25-30 quintali per ettaro, i costi di produzione non giustificano più la coltivazione. Concimi, gasolio e manodopera sono aumentati, ma il prezzo del grano è fermo. Il risultato è un progressivo abbandono del cereale simbolo del Sud a favore di colture più sostenibili o economicamente meno rischiose, come le foraggere e le colture miglioratrici.
Gli agricoltori delle zone marginali lucane raccontano di una situazione ormai insostenibile. Facendo i conti, con 25-30 quintali a ettaro non si riesce a fare reddito e una foraggera risulta più conveniente, ci dicono dalla provincia di Matera. L’equilibrio economico è compromesso anche dalla volatilità del prezzo del grano duro, che oscilla tra 25 e 30 €/q senza coprire le spese di produzione. Molti ricordano che in passato bastava una buona annata per recuperare, oggi invece la forbice tra costi e ricavi è troppo ampia.
L’esperienza di Emilio Vesia: «Io mi fermo, non conviene più»
Emilio Vesia, cerealicoltore biologico della collina materana, coltiva una ventina di ettari. Dopo anni di semine regolari, ha scelto di sospendere il grano duro e diversificare.
«Due anni fa ho smesso di seminare grano, salvo per il fabbisogno personale. L’anno scorso non sono riuscito per motivi personali ma, ad oggi, non me ne pento. Se vendessi il raccolto 2025 non mi darebbero più di 26 €/q. I listini ufficiali non vengono rispettati e ogni anno, al momento delle semine, c’è il solito, temporaneo, timido rialzo. Io e molti altri non vogliamo più giocare a questo gioco: meglio non farsi male e scegliere di non seminare».
Al posto del frumento, Vesia ha deciso di coltivare rapa, una coltura miglioratrice. Potrei seminare anche coriandolo o leguminose, seguendo i vincoli della rotazione biologica. «Con la rapa spendo 16-17 €/ha per la semina, non 200 o 250 come per il grano. Se va bene, posso raccoglierla per il mercato del fresco o per i surgelatori locali; se va male, ho comunque rispettato la PAC».
Le rotazioni nel biologico e la pressione dei cinghiali
Nel biologico la rotazione è obbligatoria: leguminose, cereali e miglioratrici si alternano per mantenere la fertilità del suolo. Ma anche qui le difficoltà non mancano.
“Fave, favino, ceci e lenticchie vengono presi d’assalto dai cinghiali — spiega Vesia — per questo molti preferiscono il trifoglio, che almeno non attira la fauna selvatica». Le foraggere restano una scelta tattica: «Non hanno un vero mercato locale, ma puoi fare un sovescio e rispettare la rotazione senza rimetterci troppo. È un modo per tirare avanti».
Siccità e clima incerto: piove «a macchia di leopardo»
Anche il clima gioca contro il grano duro. «Da settembre a fine ottobre ho registrato 170 mm di pioggia in tre episodi, di cui 100 mm in un solo giorno — racconta Vesia — ma ci sono zone dove non è piovuto per niente. Le falde sono vuote da due o tre inverni, non nevica più e l’acqua non ricarica il terreno».
In queste condizioni, la semina diventa una scommessa. “Adesso sembra che si possa seminare bene, ma nessuno sa quando arriverà la prossima pioggia. È un continuo tirare a campare».
La strategia è la sopravvivenza: ridurre le spese al minimo, adottare minima lavorazione ed eliminare gli input costosi. «Faccio una sola erpicata e via — dice Vesia —. Prima eravamo fanatici della concimazione di fondo, adesso non più. I costi sono aumentati ovunque, tranne che per il prezzo del grano». I concimi adatti per il biologico, ad esempio, si pagano intorno agli 80 €/q, secondo quanto ci riporta Vesia, e non ha più senso affrontare certe spese se poi il grano viene pagato come dieci anni fa.
Le altre esperienze: orzo e foraggere al posto del grano duro
Un altro agricoltore biologico della collina lucana, con circa 50 ettari, ha destinato quasi tutta la superficie a orzo e foraggere, mantenendo solo una piccola parcella di grano per autoproduzione e seme. «L’orzo lo destiniamo all’alimentazione zootecnica: costa meno da coltivare e almeno copre le spese».
Un terzo produttore, con 170 ettari in zone interne, racconta la progressiva riduzione della superficie a grano duro: «Fino al 2020 dedicavo il 50-60% dei terreni a frumento duro. Poi ho iniziato a ridurre e nel 2023-24 ho seminato solo 40 ettari. Quest’anno zero: tutto a foraggere. Finché il prezzo non coprirà i costi, non torno indietro».
Il calo delle superfici a grano duro in Basilicata è un segnale d’allarme per l’intera filiera. Gli agricoltori non rifiutano il grano per tradimento, ma per sopravvivenza economica. «Non è un problema di concorrenza estera — conclude Vesia —, è che noi non possiamo continuare a produrre sotto costo. Se il sistema delle filiere vuole il nostro grano, deve riconoscere un prezzo giusto».
Autore: Azzurra Giorgio
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