In occasione del workshop per i 30 anni di AISTEC (Roma, 9 ottobre), l’analisi degli ultimi 30 anni nel settore dei cereali, dal punto di vista economico, è di Angelo Frascarelli, Professore dell’Università di Perugia. Nel suo intervento l’economista ha tracciato un bilancio lucido della trasformazione vissuta dal settore, sottolineando come le dinamiche del mercato e le scelte della PAC abbiano ridisegnato il panorama produttivo nazionale. Negli ultimi trent’anni, infatti, la cerealicoltura italiana ha vissuto un’evoluzione profonda, segnata da cambiamenti strutturali, economici e politici.
Superfici in calo, rese stabili
I cali delle superfici seminate sono tra i dati più eclatanti della trasformazione. Il grano duro occupava in Italia circa 1,7 milioni di ettari; ad oggi il calo registrato è di 600 mila ettari. Nonostante ciò, la produzione complessiva si mantiene tra i 3,5 e i 4 milioni di tonnellate, segno che si coltiva meno ma meglio, concentrando le produzioni nelle aree più vocate. Pesante la contrazione per il grano tenero, sceso da 650 a 500 mila ettari, e per il mais, che ha perso metà delle superfici. Secondo Frascarelli, il calo del granturco è legato più alle difficoltà di gestione della contaminazione da micotossine piuttosto che dai cambiamenti della PAC. Il frumento duro, quindi, resta il cereale più “resistente”.
Prezzi altalenanti e costi in crescita
La volatilità dei prezzi è uno dei fattori che più colpisce nel vivo le aziende agricole. Dal 2004 a oggi le quotazioni hanno oscillato fortemente, mentre i costi di produzione sono aumentati. Il grano duro, prodotto di nicchia, è il più esposto a variazioni improvvise dell’offerta mondiale: basti ricordare l’impennata del 2022, causata dal crollo della produzione canadese. Oggi, con un’offerta superiore alla domanda, i prezzi tornano a scendere. Angelo Frascarelli sottolinea come questa volatilità non sia causata solo da fenomeni geopolitici o speculativi: la chiave è sempre l’equilibrio tra domanda e offerta.
Redditività al limite
Il vero nodo è la redditività. Con prezzi intorno a 260 €/tonnellata e una resa media di 5,5 ton/ha, il reddito netto si aggira sui 20 euro per ettaro: praticamente zero. Solo considerando valori medi degli ultimi 5 anni, i redditi netti per i ceralicoltori si attestano sui 400 €/ha. Questo significa, nelle parole di Frascarelli, che «un imprenditore agricolo che voglia vivere di cereali debba coltivare una superficie di almeno 70 ettari». E conclude:«chi ha superfici più piccole deve puntare su colture alternative».
PAC e sostegni pubblici
Il sostegno comunitario resta ancora decisivo: nei seminativi rappresenta il 46% del reddito delle aziende agricole e, considerando i soli cereali, può superare il 60%. Tuttavia, con il passaggio epocale della PAC dal sostegno accoppiato alla fase di disaccoppiamento, la superficie a grano duro è crollata di quasi mezzo milione di ettari, senza peraltro un parallelo calo produttivo, come già accennato. «La PAC non sempre ha orientato nella direzione giusta», osserva Frascarelli, «ma rimane una certezza in un contesto dominato dall’incertezza dei mercati».
Futuro tra scala e qualità
Quale futuro per il frumento? Come sottolinea Frascarelli, l’Italia è autosufficiente al 60% nella produzione di grano duro, ma esporta oltre il doppio del proprio consumo in pasta. La sfida, oggi, è tra economie di scala e differenziazione. Chi produce commodities deve puntare su grandi dimensioni e efficienza; chi vuole restare competitivo su piccola scala, invece, deve valorizzare la qualità e l’integrazione di filiera.
In ogni caso, conclude l’economista, la chiave resta una sola: la stabilità delle rese, da ottenere attraverso la ricerca genetica, pratiche agronomiche resilienti e relazioni di filiera solide e vantaggiose per i produttori primari.
Autore: Azzurra Giorgio
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