Facciamo un salto in Sicilia con Giovanni Gioia, Presidente Nazionale di ANGA – Giovani di Confagricoltura. In provincia di Palermo insieme alla famiglia gestisce ca 300 ha di seminativi, di cui la metà dedicata a frumento duro.
“Da oltre 15 anni”, ci dice, “ci siamo specializzati nel frumento duro da seme; abbiamo un rapporto di fiducia consolidato con una ditta sementiera siciliana che ha cinque varietà registrate. Ci occupiamo di tutto il processo, dalla riproduzione pre-base fino alle seconde riproduzioni. Siamo molto attenti alla gestione delle operazioni colturali e alla pulizia delle macchine per garantire la qualità della semente che produciamo: siamo in grado di raggiungere ottimi risultati di purezza. Tra le altre attività, ospitiamo anche campi sperimentali per l’attività di isituti di ricerca”.
Come vi influenza la nuova PAC sul tema rotazioni, qui in Sicilia?
“Produciamo grano duro da seme, quindi abbiamo sempre avuto qualche accortezza in più. Molto difficilmente, infatti, facciamo ristoppio: la precessione colturale è sempre di leguminosa da granella o di un mix di leguminose da fieno. Quindi noi facciamo rotazioni annuali indipendentemente dalla PAC: è anche vero che il nostro territorio ha poche alternative, è la zona delle basse Madonie, con terreni non particolarmente pregiati. Nei nostri areali si è sviluppata la cerealicoltura e poco altro; la rotazione ci permette di evitare di sfruttare eccessivamenTe il terreno che ha una dotazione di sostanza organica non elevata”.
E vi porta anche altri vantaggi…
“La rotazione col fieno ci permette di controllare meglio le infestanti perchè lo sfalcio avviene prima dell’andata a seme delle stesse. A parte una quota minoritaria dell’azienda per cui abbiamo la certificazione volontaria del biologico, quindi senza aver fatto ricorso a misure di sostegno a superficie, per i cereali in convenzionale facciamo comunque un uso moderato di agrofarmaci. Grazie alle semine più tardive e alle condizioni climatiche, con rinnovi ben fatti non abbiamo una carica di infestanti significativa e ci capita anche di non dover ricorrere per nulla ai diserbi primaverili”.
Come vi influenza l’attuale andamento del mercato?
“Il mercato ci influenza fino ad un certo punto. Trattandosi di prodotti quotati non ci sono grandi margini di contrattazione sui prezzi e l’andamento è decisamente troppo instabile per fare adeguata programmazione. Facendo ufrumento da seme, ci aiuta comunque un premio di produzione a cui, ovviamente, corrispondono attenzioni gestionali e costi maggiori per la semina. Prima di tutto, però, bisogna considerare che nel nostro areale e con il nostro clima la vocazione è quella classica della gestione cerealicola, con avvicendamento di leguminose da granella ed erbai. Non ci sono molte altre alternative, se non su superfici limitate”.
E i costi degli input?
“I costi di produzione continuano ad essere alti e, se calano, lo fanno comunque quando i prezzi di vendita sono già scesi. Con queste condizioni di mercato il cerealicoltore non è in grado di prevedere grandi investimenti in azienda: il nostro è uno dei settori più in difficoltà e la condizionalità della PAC incide più che in altri ambiti agricoli. Inoltre, molte opzioni offerte dalla politica comune non sono applicabili nei nostri areali: si pensi all’Ecoschema 5 che non è per niente adatto ai climi caldi e secchi del sud”.
Come cambia, quindi, il ruolo del cerealicoltore?
“Il grano duro è in caduta libera ormai da tempo: il cerealicoltore e chi, in generale, fa agricoltura legata alle commodities non opera in un mercato propriamente autonomo: il prezzo di vendita segue logiche globali, equilibri commerciali e geopolitici estesi in cui le produzioni e le transazioni dei grandi player influenzano i prezzi. Anche con un contratto di filiera o da seme, il punto di partenza è sempre lo stesso. Siamo poi regolati dalle norme e dai finanziamenti della PAC: il nostro è un mercato che si è già tarato sul presupposto dell’esistenza di una politica agricola comune. Se oggi si eliminassero i pagamenti diretti, un cerealicoltore andrebbe in pari con le spese…è vero che si tratta di un’integrazione al reddito ma, in questo periodo storico, i pagamenti diretti fanno la differenza”.
E si torna alla difficoltà di fare investimenti…
“Se, per investire, l’azienda agricola deve sempre aspettare il contributo o l’incentivo, allora ciò è rappresentativo di quanto sia in difficoltà il settore: una qualsiasi azienda, con i suoi ricavi, dovrebbe essere in grado di mettere da parte una quota destinata agli investimenti. E i costi della tecnologia sono lievitati, complice anche la politica degli incentivi degli anni scorsi”.
Autore: Azzurra Giorgio
Puoi seguirci anche sui social, siamo su Facebook, Instagram e Linkedin