La stagione della semina impone riflessioni sulla gestione delle erbe infestanti per provare a sostenere la resa, minacciata dalla variabilità meteorologica, dalla siccità e dalle malattie fungine. Per il cerealicoltore, recuperare redditività vuole anche dire controllare la competizione delle specie indesiderate presenti in campo e incrementare il vantaggio competitivo del frumento.
La diffusione delle resistenze agli erbicidi e la restrizione dei principi attivi impiegabili, però, avanzano inesorabilmente e “a braccetto”: l’imperativo, quindi, è agire in modo nuovo. Da un lato, la gestione del diserbo chimico deve essere oculata e adeguata. E’ fondamentale seguire le buone pratiche, per non contribuire alla diffusione di individui resistenti. Dall’altro, vanno recuperate certe prassi, un tempo più diffuse, caratterizzate da un impatto ambientale ridotto, se non positivo. Parliamo ad esempio delle rotazioni e della semina di cover crop, su cui Fernando Di Chio (nella foto), agronomo e Area Manager Sud di SIS (Società Italiana Sementi), ci racconta la sua esperienza e i dettagli da applicare in campo.
Fernando Di Chio: qual è la sua esperienza in campo con le resistenze delle infestanti?
«E’ importante premettere che la resistenza agli erbicidi è un problema che riguarda un vasto territorio: non si limita ad aree circoscritte e la riprova è data dal GIRE, sul cui sito viene attuato il monitoraggio delle erbe infestanti resistenti sull’intero territorio italiano.
La mia esperienza con i primi casi di resistenza risale alla fine degli anni novanta: lavoravo nell’agro di Apricena (provincia di Foggia). Qui si manifestò un’evidente resistenza delle avene a principi attivi appartenenti ai gruppi FOP e DIM, erbicidi che agiscono sullo stesso sito di azione nel controllo delle infestanti. La comparsa di nuovi principi attivi mitigò il problema, anche perché era un periodo in cui si praticavano ampie rotazioni. Le rotazioni, infatti, incidevano notevolmente sul controllo delle infestanti, in quanto coltivando specie differenti (barbabietola da zucchero, girasole, frumento, pomodoro ed ortaggi vari), si aveva un’alternanza dei diserbi e, quindi, un controllo maggiore.
Quando, poi, la politica comunitaria portò alla scomparsa della coltivazione della barbabietola da zucchero, oltre ad altre colture oleaginose quali il girasole, si accentuò il problema resistenza. Anno dopo anno il fenomeno si estese ad areali sempre più ampi e a un sempre maggior numero di specie infestanti».
Cosa accade con le rotazioni più diffuse ad oggi?
«Sempre a causa di politiche comunitarie discutibili, si è arrivati ad una rotazione sempre più stretta fatta di sole leguminose e cereali e pochi ortaggi. Questo ha comportato l’uso esclusivo di alcuni principi attivi che, avendo sempre lo stesso meccanismo di azione sulle infestanti, hanno indotto resistenze che oggi abbiamo difficoltà a contenere. Del resto, accade come per gli antibiotici nell’uomo: un uso costante dello stesso antibiotico comporta nell’uomo la sua inefficacia, al pari nelle piante: l’uso di uno stesso principio attivo per più anni induce resistenza nelle infestanti.
Non meno importante è anche un altro aspetto, ossia la pratica del tutto errata del “sottodosaggio” dei principi attivi, spesso infatti, in epoche passate ma oggi molto meno, gli agricoltori pensavano che una riduzione della dose di etichetta potesse dare lo stesso effetto nel controllo delle infestanti, inconsapevoli che “è la dose che fa il veleno”. Quindi, riducendo i dosaggi si aveva si un controllo ma, nel contempo, si selezionavano individui di specie infestanti resistenti che si adattavano a quella sostanza e, quindi, trasmettevano alla loro progenie questa loro caratteristica di resistenza».
L’intervista proseguirà domani con l’approfondimento delle pratiche efficaci.
Foto di Fernando Di Chio.
Autore: Azzurra Giorgio
Puoi seguirci anche sui social, siamo su Facebook, Instagram e Linkedin